Naufraghi in porto

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Deledda Grazia


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La vicenda si avvia intorno a una situazione molto concreta: una giovane donna nel fiore dell’età, Giovanna Era, rimane sola con un bambino piccolo perché il marito, Costantino, è stato condannato a ventisette anni di reclusione per omicidio. Nell’ottica delle antiche tradizioni sarde, questo non rappresenterebbe un dilemma etico se non fosse che, negli stessi anni in cui è ambientata la vicenda, si andava dibattendo sul continente la possibilità di istituire il divorzio nei casi di sevizie, adulteri, o reati gravi che prevedessero una lunga detenzione. Questo apre, nel futuro della giovane sposa fomentata ad arte dalla madre, la possibilità di contrarre nuove nozze, magari più vantaggiose anche sotto il profilo economico. La legge (ancora solo ipotizzata) dell’Italia moderna si viene così a scontrare violentemente con le leggi di Dio e quelle riconosciute e agite dagli uomini in una realtà ancora rurale. L’urto ideologico che contrappone umano e divino, fede e diritto, viene incarnato dalla figura stessa di Costantino, sulla cui colpevolezza pochi paiono nutrire dubbi (persino la moglie e la suocera non gli credono, benché lui continui ostinatamente a proclamare la propria innocenza); l’uomo stesso, del resto, riconosce di essersi macchiato di un peccato mortale: non già quello di cui è pubblicamente accusato, ma il fatto di aver sposato soltanto civilmente Giovanna, non potendosi permettere gli sfarzi di un matrimonio religioso, e di aver dunque concepito un figlio al di fuori della protezione della Chiesa. Dunque il crimine, l’omicidio dello zio Basilio, passa quasi in secondo piano rispetto alla colpa morale, che risulta per il detenuto qualcosa da espiare attraverso la prigionia stessa.
Ean / Isbn
978886202009
Pagine
208
Data pubblicazione
04/11/2007